L’ALTRUISMO SPORCO. Quando fare del bene è considerato peggiore che non far del bene

Tempo fa parlavo con una mia amica, che rispetto e stimo, di altruismo, dei risvolti sociali, delle innumerevoli critiche che a volte gesti di altruismo possono muovere e del paradosso che si genera.
Era appena successo il caso di Chiara Ferragni e del cachèt di Sanremo donato all’Associazione D.i.Re con tutte le polemiche che quel gesto ha mosso.

C’è chi ha attaccato il gesto in quanto pubblicizzandolo pubblicamente sui social è diventato attenzione mediatica non solo per l’Associazione contro la violenza sulle donne, il che è cosa buona e giusta, ma di riflesso anche per la vip in questione che ne ha goduto di immagine e guadagno personale, il che è stato considerato inaccettabile da molti.

Ed è qui che mi sono incuriosita e ho iniziato a ragionare sul fenomeno sociale che sta alla base: un bel gesto diventa un cattivo gesto se mosso da interessi personali? Ma esiste un gesto che non sia mosso da interessi, risvolti e benefici personali?

Già Platone (395-387 a. C.) s’interrogava sulla questione chiedendosi se l’interesse per il benessere di un amico fosse motivato da un interesse autentico e fine a se stesso o piuttosto dalla ricerca di un beneficio personale. Essere “buono”, “gentile”, “un vero amico” fa bene all’altro, ma fa bene anche a me che mi ci sento, che so di esserlo e che so che gli altri mi ci considerano.

Illustri menti tentarono e tentano di rispondere a tale domanda: esiste un altruismo “puro” e totalmente disinteressato?

La risposta è più no che sì.

In realtà questa forma di altruismo è estremamente rara.
Sono quei casi eccezionali che nei telegiornali e tabloid vengono titolati con la parola “eroe/eroina” in maiuscolo, cioè quando la persona mette a rischio la propria vita per aiutare qualcun altro in pericolo, quindi una scelta controproducente per il proprio bene a favore del bene dell’altro. Senza motivo o beneficio e senza obbligo di dovere, lealtà o motivi religiosi.
Tipici casi eclatanti sono: l’uomo che si tuffa in un fiume ghiacciato per salvare uno sconosciuto dall’annegamento o il personaggio misterioso che dona centinaia di migliaia di euro a un ente di beneficenza locale.

E’ giusto sottolineare, per evitare confusione, che i lavori di salvataggio e le professioni di aiuto (laiche o religiose che siano) non sono considerati atti di altruismo puro, perché in quel comportamento altruista le persone stanno rispondendo a un dovere professionale. Intervenire, aiutare, salvare e rischiare è il loro lavoro, non una scelta disinteressata. Sicuramente richiede coraggio e determinazione, ma c’è anche in quegli atti un ritorno individuale e personale.
E la domanda dunque è: un gesto di aiuto verso altri perde o non perde di significato se comprendiamo che risponde anche a un interesse della persona che lo agisce?
In una situazione di pericolo rifiuteremmo mai l’aiuto di un pompiere perché non totalmente genuino e disinteressato, ma risponde a un interesse personale?
“Non voglio essere salvato da te, perché tu non vuoi salvarmi, devi salvarmi, e vieni pagato per farlo!” quello sì, che sarebbe controproducente per il nostro interesse.
Quando si riceve aiuto, la motivazione di fondo è indifferente.
Conta di più l’intenzione o l’atto in se?

Quindi, lasciamo da parte l’idea ingenua dell’altruismo puro, candido e disinteressato, contrariamente a quanto affermano le credenze popolari, l’altruismo non è del tutto privo di ragioni o motivazioni. Non è un’emanazione della pura e assoluta bontà dell’essere umano.

Nella vita di tutti i giorni mettiamo in atto molto spesso comportamenti altruistici, sia con le persone a cui vogliamo bene, sia con coloro che non conosciamo.
Ma è sempre previsto un ritorno sul piano individuale: la persona altruista prova sentimenti positivi di maggior stima verso di sé, vive un benessere psicologico e si sente valorizzata.

Secondo molte teorie, quindi, l’altruismo totalmente disinteressato in realtà non esiste (se non in eccezionali casi, come dicevamo prima nda), in quanto vi sarebbe sempre un beneficio secondario per la persona altruista, attraverso le gratificazioni che può ricevere in cambio del suo gesto di generosità: ad esempio il senso di auto-realizzazione, di autostima, di riconoscimento sociale.

In più l’altruismo attiva i centri di ricompensa nel cervello. I neurobiologi hanno scoperto che quando sono coinvolti in un atto altruistico, i centri del piacere del cervello si attivano.
Nella rivista Psychology Today si parla di come l’altruismo produca in modo naturale, e in abbondanza, serotonina, ossitocina e endorfine. Ovvero le cosiddette “molecole della felicità”.
Fare del bene fa star bene.

Ecco dunque che l’altruismo che viviamo e che mettiamo in atto è in realtà un altruismo detto “sporco” o “contaminato”.
Ma a livello sociale spesso non viene accettata questa realtà e una buona azione non conta se se chi la compie ne trae un qualche beneficio, e quel gesto non solo non viene apprezzato e valorizzato, ma può addirittura danneggiare l’immagine sociale di chi la compie.

E’ come se idealizzassimo il concetto di altruismo a tal punto da non poter prevedere sfumature di nutrimento per la persona stessa. Come se, se anche l’altruista provasse gioia nel donare gioia agli altri, allora non fosse più altruista, ma egoista. Ma se nel far star bene gli altri, poi, come effetto secondario, mi sento bene anche io che c’è di male?
Sarebbe davvero meglio non far nulla per nessuno piuttosto che stare bene in due?

Per dimostrare quanto sia reale tale fenomeno, due ricercarori Newman e Cain della Yale University hanno ideato quattro esperimenti sociali, e ve ne illustrerò due, ma a piè pagina troverete il link dell’articolo completo.
Nel primo, ai partecipanti sono stati mostrati due scenari in cui un uomo, sperando di impressionare una donna, si offriva di aiutarla a titolo gratuito nel suo posto di lavoro: in una versione lei lavorava presso un bar, nell’altra in un ricovero per senza fissa dimora.
Tutti i partecipanti alla ricerca hanno poi valutato, su una scala da 1 a 9 , quanto gli piacesse l’uomo e quanto pensavano fosse etico o morale il suo comportamento.
Sorprendentemente, nello scenario di volontariato per il rifugio di senza fissa dimora l’uomo è stato valutato come meno morale (4.75 su 9.00) che nello scenario coffee shop (6,62).

Nel quarto esperimento i soggetti si confrontavano con una situazione in cui un ipotetico imprenditore, con l’intento di migliorare la sua immagine pubblica e aumentare le vendite, da un lato decideva di investire milioni di dollari in un’azienda di pubblicità privata, dall’altro decideva di donare la stessa quantità economica in beneficenza in modo tale che l’atto gli avrebbe permesso di godere di pubblicità riflessa.
Anche in questi casi, uno scenario di beneficenza è stato visto come meno morale di uno scenario di pubblicità dai partecipanti alla ricerca.

Ecco, dunque, che con questo esperimento emerge il bias cognitivo dietro la percezione di un atto altruistico: l’interesse personale contamina la valutazione dell’azione prosociale tanto da screditarne totalmente il valore e da preferire nessun bene a poco bene, anche se controintuitivo.
Qualsiasi atto prevede un ritorno personale, quindi proviamo a valutare gli atti e meno le intenzioni, che tanto non possiamo conoscere e che non tolgono nulla all’atto in sé.

Per quanto riguarda la dinamica della donazione di Chiara Ferragni a D.i.Re
Non entrerò nel dettaglio, quello che mi ha incuriosito di più è il fenomeno sociale di rabbia e frustrazione che si genera di fronte a tali gesti di beneficenza.
Una delle critiche principali è stata che lei di quella beneficenza se ne è fatta pubblicità, come se fosse inconcepibile che anche la idealizzata e mitizzata Chiara Ferragni sia umana e quindi che possa essere mossa da interessi personali, identitari o economici che siano. Impensabile che magari con quell’atto volesse sentirsi “brava” o anche sentirsi dire “brava” magari, esattamente come tutti noi.
Perché esattamente come per tutti noi, è molto probabile che ci siano motivi secondari che muovono le sue, quanto le nostre azioni.

Alla fine sembra che il problema sia, soprattutto, di etichetta. L’importante non sarebbe donare e dare visibilità a uno specifico ente rispetto a un altro. No. Quel che conta davvero è tenerselo per sé.

Non mostrare quel lato “egoista” che sporca il puro e assoluto (quanto irreale) concetto di “altruismo”. Soprattutto quando si parla di personaggi idealizzati quanto disumanizzati come possono essere i vip, così lontani da noi da essere amati e odiati, perché lontani e vicini, a volte umani, a volte divini, a volte simili, a volte diversi, a volte troppo imperfetti, a volte troppo perfetti.

Per quanto riguarda la Ferragni. Se ci ha guadagnato di pubblicità a me non interessa, l’avrebbe guadagnata in ogni caso qualsiasi cosa avesse scelto di fare o non fare, si sarebbe comunque parlato di lei, quello che PER ME (opinione squisitamente soggettiva nda) è più importante è che ha donato una notevole cifra e data tanta visibilità a una tematica sociale importante: la violenza contro le donne.


E’ di sicuro una grande cassa di risonanza e se anche solo un piccolissima percentuale di followers della Ferragni decidesse di informarsi, di donare o di rivolgersi all’Associazione D.i.Re e alle altre associazioni italiane contro la violenza sulle donne ne è valsa la pena.
Che lei ne goda o meno. Del resto: non esiste un altruismo pulito.

Per concludere riporto la dichiarazione rilasciata dalla presidente dell’associazione, Antonella Veltri:
“Le donazioni si fanno in silenzio? Per la verità è chi usa violenza sulle donne che conta sul silenzio. E il mio commento personale è che solo chi non vuole riconoscere la violenza di genere può restare in silenzio o non considerare l’importanza di parlarne.”

 

Newman, G. E., & Cain, D.M. (2014). Tainted Altruism: When Doing Some Good Is Evaluated as Worse Than Doing No Good at All. Psychological Science, 25(3), 648-655.